Un campo di calcio, vuoto, senza spettatori. Riflettori accesi, un solo uomo che palleggia nel cerchio di centrocampo. Ed un pallone che non tocca mai terra per ore. Poi, improvvisamente, lo stadio si riempie, si fa giorno, la temperatura sale fino a sfiorare i 40 gradi all'ombra. Il giocatore, che prima era un solitario puntino anonimo, adesso indossa la maglia numero 10 della nazionale italiana ed il pallone ha smsso di roteare in aria. Si è appoggiato sul dischetto del rigore e la porta è occupata da un portiere della nazionalità sudamericana ma con un chiarissimo accento emiliano acquisito dalla sua permanenza in squadre di quella regione. Non è dato sapere cosa possa significare quel tiro ma si intuisce che è una cosa importante dal silenzio carico di attese del pubblico, dal nervosismo dei compagni di squadra e dalla presenza a bordo campo di alcuni signori in giacca e cravatta che sono intenti a tirare fuori da una valigia blindata un oggetto, piuttosto pesante che risplende al sole della California.
L'arbitro fischia ed il giocatore inizia la rincorsa. Ne ha tirati tanti in carriera. Nella maggior parte dei casi, la palla dopo aver subito la spinta decisiva partita dal suo piede destro ha terminato la sua oracolare corsa in fondo al sacco. Così era accaduto quattro anni prima in una semifinale mondiale in Italia che, nonostante ciò, non era servita ad evitare una bruciante sconfitta. Così era accaduto un altro milione di volte (almeno) e le vittorie non erano tuttavia mancate. Chissà cosa deve aver pensato quel rigorista al momento dell'impatto con la sfera in quella torrida giornata estiva americana. Chissà cosa sarebbe successo se il portiere non avesse mai potuto intervenire a parare il tiro e si fosse inchinato alla bravura del tiratore in questo genere di fondamentale calcistico. Una nazione, un popolo intero, si aspettava che ciò accadesse. E invece, per quella volta, quella volta particolare ed irripetibile per l'esclusività della partita in questione, il pallone non è stato guidato dal volere nazionale, si è inspiegabilmente impennato, ha cominciato girare vorticosamente su se stesso e si è perso oltre la traversa della porta avversaria, più in là dei cartelloni pubblicitari ed è stato recuperato da un anonimo raccattapalle, incredulo ed estasiato per ciò di cui era appena stato testimone. Dopo un attimo d'esitazione, dovuta alla sorpresa, il portiere ha cominciato ad esultare ed è andato incontro ad i suoi compagni di squadra festanti e tutti accomunati da una divisa giallo oro. Ed il numero 10 è rimasto lì, sul dischetto, per un tempo indefinito ed indefinibile ad osservare la scia dell'orbe appena calciato, ad immaginarsi un altro finale, a capire per quale motivo il pallone, da sempre suo amico, fratello e grande compagno di gioie, gli aveva donato questa incredibile delusione. Si sentì tradito, il giocatore, come un innamorato si sente tradito dal suo partner adultero. E lì, sul quel dischetto, ha lasciato un pezzo del suo cuore, oltre che la Coppa del Mondo.
Improvvisamente però, lo stadio si trasforma nuovamente e lo riporta indietro nel tempo. Non siamo più in California ma in una città del sud Italia che da qualche anno sta sperimentando le soddisfazioni mai provate prima dell'alta classifica, grazie anche ad un folletto mancino sbucato fuori dalla spazzatura delle periferie argentine. E' più giovane adesso e la maglia che indossa ha un colore diverso: è bianca con le venature viola ed un giglio rosso stampato in alto a sinistra. Una sola costante: il numero 10 ben tatuato sulla schiena. Ad un certo punto, come colto da un'irrefrenabile voglia di correre e di stupire, scende dalle zone più remote del suo reparto offensivo e viene a prendere palla davanti alla propria area di rigore. Un attimo per orientarsi e via di nuovo verso la porta avversaria. La palla s'incolla al suo piede magico e per trenta metri non trova alcuna resistenza. Passato il centrocampo comincia l'affollamento avversario rappresentato da un grappolo di maglie celesti che gli si parano davanti. Queste sono macchinose, pesanti, lente e poco inclini a giocare pulito. Lui, invece danza sul campo leggero come una zanzara tra un nugolo di ragni. Ne salta uno, poi un altro, poi un altro ancora (che rischia tra le altre cose di spezzargli un'ala) e si presenta davanti all'estremo difensore opposto. Nei suoi occhi scorge un certo timore dopo che egli ha visto cosa era riuscito a fare pochi secondi prima con i suoi compagni di squadra. Forse è per questo che quando si ritrova saltato lui stesso e consente a quel magico furetto impazzito di arrivare davanti alla linea di porta ed accompagnare la palla all'appuntamento col gol non si gira nemmeno, sicuro del suo destino ormai irrimediabilmente segnato.
Roberto Baggio domenica scorsa ha compiuto 40 anni. Ricordarlo in questo blog è sicuramente riuduttivo in quanto la sua grandezza supera i confini del tempo e dello spazio. Amato dappertutto, le sue gesta resteranno impresse nella memoria di tutti coloro che amano davvero questo sport e che con lui hanno gioito e si sono disperati per quando segnava con la maglia di altre squadre. Un uomo tanto geniale quanto sfortunatissimo, sia per il maledetto rigore mondiale del 94 sia per i numerosissimi infortunii alle sue cristalline ginocchia con le quali oggi può tranquillamente giocare a cruciverba con le cicatrici che si ritrova. Ma è anche l'uomo dalle invenzioni impossibili: indimenticabile il gol alla Cecoslovacchia ad Italia 90 come indimenticabile è quello alla Juventus siglato il penultimo anno di attività: lancio da centrocampo e stop in corsa che allo stesso tempo manda Van Der Sar fuori coordinazione. Naturale conseguenza, gol meraviglioso. Il Pallone d'Oro 1993 è stato solo il giusto ringraziamento ad un campione indimenticabile.
Oggi, vive vicino Caldogno, suo paese natale e si dedica al buddhismo e alla sua famiglia. Aspettando il giorno in cui rivedremo pubblicamente il suo codino svolazzare in giro.
Nel frattempo lo voglio ricordare con due maglie: quella della Fiorentina e quella della nazionale. Perchè, come tifoso, con lui ho provato per la prima volta cosa significhi l'essenza del gioco fatta di estro, fantasia ed intuzione e pazienza se i miei piedi assomigliano di più a delle cassette per la frutta che a quelle di un giocatore professionista e anche perchè, quando indossava la maglia azzurra (anche dopo, quando giocava nelle altre squadre) mi ha fatto sentire orgoglioso di essere italiano più di quanto abbiano fatto gli attuali campioni del mondo (per carità, una gioia immensa, ma Baggio è Baggio).
Perciò, mi alzo in piedi e lo applaudo anch'io, unendomi al pubblico di San Siro nel quale ha giocato la sua ultima partita contro il Milan, che gli ha tributato un'ovazione che non si era mai vista. Ed eccolo lì, in mezzo al campo che alza la mano con la fascia da capitano bene in vista, l'altra mano sul cuore e che ringrazia noi che lo ringraziamo di essere coì immenso ed insostituibile.
GRAZIE ROBY!!!!
5 commenti:
Forse il più grande di sempre!
togliamo pure il forse... insieme a Maradona ovviamente
e di stefano.. no?
cmq il più grande italiano di sempre. in culo quelli che dicono rivera, milanesi bbbbastardi
senza parole..
ma e.... e.... lo aggiorniamo il blog o what?
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